Napoli, 14 novembre 2011 – Quarantotto ore. Tanto ha resistito in carcere, prima di suicidarsi, Gino Roselli, arrestato venerdì nella sua casa di via Crispi a Napoli, dove si era chiuso in bagno armato di coltello. Nella stessa giornata il 50enne restauratore di mobili aveva accoltellato tre donne: la compagna, la sorella ed una vicina di casa. Per poi scatenarsi su sua madre, riducendola in fin di vita in una notte di follia tra Mergellina e corso Vittorio Emanuele. Portato in carcere, Roselli ha ridotto in brandelli una coperta con la quale si è impiccato nella sua cella, all’interno del reparto di osservazione del carcere di Poggioreale. Un regime definito di “grande sorveglianza” che non ha saputo evitare il gesto estremo dell’uomo. Una sezione che prevede sette celle singole con brandina e coperte e niente più. Quello di Roselli è il primo suicidio del 2011 e riapre il caso dei suicidi in carcere. In particolare di quelli nella casa circondariale di Poggioreale, uno dei carceri più affollati d’Europa. 2763 detenuti quando potrebbe ospitarne 1688 e la media di 100 ingressi al giorno con un via vai di 14mila detenuti all’anno. Sotto la lente d’ingrandimento ci finisce adesso la procedura adottata subito dopo l’arresto dell’uomo. Adriana Tocco, garante dei detenuti in Campania, denuncia la mancanza di psicologi in carcere. Costretti, questi ultimi, a coprire solo poche ore per mancanza di fondi. “Abbiamo stimato – sostiene uno dei sostenitori di Antigone, associazione che si batte per per i diritti e le garanzie del sistema penale – che ogni detenuto fa un minuto di colloquio con lo psicologo al mese”. Questo rapporto è alla base della maggior parte dei suicidi nel carcere di Poggioreale.
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