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Venerdì 22 Novembre 2024

Vita e morte di un ingegnere

Vita e morte di un ingegnere edizioni Mondadori di Edoardo Albinati

La figura del padre troneggia in molti libri della letteratura occidentale e da Kafka in poi è quasi diventata quasi un totem sospesa tra i due binomi dell’autorevolezza-autorità e quello dell’asprezza- tenerezza. Ed è in disperata distanza tra l’asprezza e il desiderio di tenerezza e di comprensione tra un figlio e suo padre che si snoda il romanzo autobiografico scritto da Edoardo Albinati. In “Vita e morte di un ingegnere” l’autore traccia un ritratto impietoso ma umanissimo del suo algido genitore attraverso uno sguardo osservatore e malinconico che non si ferma mai davanti a nulla e sa arrivare al cuore di questo rapporto. «Mio padre non amava la musica» è la laconica e puntuale affermazione con cui inizia la narrazione che rivela, sin dall’inizio, il grado di separazione tra i due protagonisti e l’incapacità dell’ingegnere di avere sentimenti, di aprirsi all’esterno, di comunica col figlio solo attraverso un atteggiamento duro e sfidante che non dà mai importanza a quello che al giovane importa. Il padre, che sin dal titolo, è definito un ingegnere, tanto nel lavoro tanto nella vita, e quel titolo serve a presentare un uomo “dal cuore povero e disumano”, è un tipo arido e insensibile che si riduce ad essere, almeno agli occhi del figlio, solo un insieme di abitudini. Un uomo tutto d’un pezzo, forse, un professionista di una volta, serio, apparentemente sereno con se stesso e allegro, un pater familias che provvede a tutto perché vuole controllare tutto ma che rifiuta il rapporto con il figlio, come se ne intuisse l’intima fragilità e la respingesse.
Nella prima parte del libro, scritta quasi d’impeto tre mesi dopo la morte del padre nel 1991, Albinati affronta il rapporto e la figura del padre, mentre nella seconda affronta la malattia e la morte dell’uomo e la sua ostinata volontà di rimanergli vicino sino al momento estremo come per vivere e capire cosa stesse accadendo, dopo essere scappato due volte per scoprire la propria alterità e una sua misteriosa forma di indifferenza, ereditata forse dal padre stesso. Quel che rimprovera di più al padre, infatti, è proprio quel che scopre di possedere in maniera eguale in se stesso, il voler risparmiare nella consapevolezza del dolore, perché «meglio che l’altro non sappia, meglio che gli sia evitata la conoscenza, poiché la conoscenza è comunque sgradevole, deludente, spaventosa». Ma la conoscenza è la vita che arriva comunque al suo epilogo attraverso il dolore della malattia che può svelare la realtà dei rapporti umani e il nostro essere umani meglio di qualsiasi altra esperienza, lasciandoci però l’amarezza che lasciano tutti i legami forti ma incompiuti. E l’agnizione, il riconoscimento finale, in questo libro sarà solo sfiorato perché la natura del padre, come quella del figlio, sarà coerente fino in fondo. «Credevo – scrive l’autore-figlio – che la malattia avrebbe schiuso l’intimo di mio padre, e invece questi vi si barricò dentro e morì nel bozzolo, senza che nessuno scoprisse come era fatto».

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