Napoli, 17 novembre 2012 – Se vox populi è vox dei, allora il saccheggio dei volumi nella biblioteca dei Girolamini è una storia annunciata. La vox è una di quelle istituzionali e girava negli ambienti ministeriali. “Hanno messo il lupo a guardia degli agnelli”, era la battuta che girava quando Marino Massimo De Caro fu nominato direttore della biblioteca dello storico complesso dei Tribunali. “Il lupo a guardia degli agnelli” si trova da tempo ai domiciliari con l’accusa di aver fatto incetta dei più preziosi volumi conservati nel suo recinto. La battuta se l’è lasciata scappare in libertà Maurizio Bifolco, consulente delle principali case d’aste d’Europa. Una testimonianza nel corso della prima udienza del processo immediato nel filone sul peculato. Parola anche al lupo, a De Caro che dà valore alla battuta sul suo conto, rivelando un altro saccheggio a sua opera. Il furto di “una ventina di antichi erbari (libri su temi botanici o agricoli) dalla biblioteca ministeriale”. Il ministero in questione è quello dell’Agricoltura. Il modus operandi è quello dei Girolamini: dalla nomina puramente politica, alla complicità creata ad arte con il custode, al furto notte tempo con volumi raccolti in scatoloni. Insomma, si apre un altro capitolo nella carriera di De Caro. Con indagini aperte su casi analoghi che vedrebbero l’ex direttore dei Girolamini protagonista a Cassino, a Padova, ma anche nell’antica libreria antiquaria “Imago mundi” di Buenos Aires, città dove De Caro ha vissuto per anni. Ritorna nel corso degli interrogatori, il riferimento a un non meglio identificato conte umbro, un aristocratico estraneo alla trama intessuta da De Caro da utilizzare – almeno nelle intenzioni iniziali – come scudo nei confronti delle indagini partenopee. E così, quando scoppia il caso Girolamini, De Caro fa di tutto per ottenere una dichiarazione spontanea dai soci, che vengono spinti ad affermare di aver acquistato quei libri scomparsi a Napoli dal conte umbro. È disposto a ricorrere alle maniere forti, De Caro, tanto da minacciare gli ex soci in affari, fino a sventolare un presunto attestato con cui si dichiara la “capacità di intendere e volere del conte” al momento della donazione di non meglio precisati testi di valore.
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